Poche questioni sono difficili da raccontare come le articolate interazioni di un gruppo di donne. Poche sono ardue da comprendere come le rivalità che si possono scatenare quando ci sono di mezzo i figli. Ciò che poi è proprio impossibile da spiegare è la dipendenza dalla violenza psicologica, prima ancora che fisica. David E. Kelly riesce in tutte e tre le imprese. Contemporaneamente. Senza per di più indulgere in complicate ricostruzioni o in pietose giustificazioni.

“Big Little Lies”, serie tratta dal romanzo di Liane Moriarty, descrive l’universo femminile – ovattato, elegante, privilegiato – della ricca comunità di Monterey. Un gruppo di donne bellissime che vivono in case maestose con vista sulla baia, ma soprattutto un gruppo di mamme, che in quanto tali si muovono nel branco secondo precise regole e rituali. La loro attenzione, infatti, è rivolta principalmente al microcosmo che ruota attorno alla scuola dei loro bambini.

Piccoli problemi scolastici si trasformano ben presto in vere e proprie guerre intestine, giochi di potere, strategie per la conquista del consenso. In mezzo a tutto questo, anzi prima di tutto questo, un omicidio. Un mistero di cui capiremo tutti i risvolti più inquietanti soltanto alla fine.  In quella patinata perfezione, infatti, le loro vite sembrano essere solide e immutabili, ma neppure le famiglie perfette lo sono mai davvero fino in fondo. Questa è (forse) l’unica grande lezione che la serie ci insegna e che non dovremmo mai dimenticare.